Di Ramon Mantovani
Nel forum del 23 marzo su Liberazione
Bertinotti ha anche affrontato la questione del Partito.
Dopo aver detto che negli ultimi venti anni la sinistra si è fatta prevalentemente centro e che la stessa nozione di sinistra "si è frantumata in mille schegge", e dopo aver citato Pintor per sostenere che la priorità è rimeritarsi la fiducia della propria gente, Bertinotti parla di "un nuovo inizio".
Ecco la citazione: "Adesso è un nuovo inizio per la sinistra e, se non riusciamo a darne conto, non ce la possiamo fare, perché veniamo, oltre che dalla sconfitta del '900, anche da una sconfitta del nostro tempo. L'esperienza di Rifondazione è meritevole, ma è parte di questa sconfitta anche se è senza colpe. Per questo, io credo che nel processo unitario a sinistra ognuno deve dire per sé cosa tiene e cosa lascia. Cioè: Rifondazione per Rifondazione, Pdci per il Pdci, i Verdi per i Verdi, stessa cosa per Sd e la sinistra diffusa. Bisogna che proviamo a fare questo esercizio per il nuovo inizio e il collegamento con la propria gente".
Sconfitta? Nuovo inizio? Sinistra diffusa?
Lo dico davvero senza intenti polemici, ma questi concetti sono stati alla base della svolta della bolognina.
Hanno la forza suggestiva di dar conto di uno stato d'animo ben presente in molti, se non in tutti.
Che, con il trionfo del capitalismo, siamo stati sconfitti è sotto gli occhi di tutti. Che fare? Una cosa nuova capace, magicamente, di renderci migliori e più forti. Con chi? Ma Con la sinistra diffusa, naturalmente!
Queste cose, però, hanno il grave difetto, a mio parere, di essere tanto generiche quanto incapaci di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte, Anzi, di più, essendo una fuga dai problemi, al di là delle suggestioni fugaci, finiscono con l'aggravarli.
Di che sconfitta parliamo? Anche partendo dal punto di vista di Bertinotti (e della parziale citazione di Pintor), cioè dalla constatazione che si è persa la fiducia della propria gente, bisognerebbe interrogarsi maggiormente sul perché, piuttosto che indicare, in modo assolutamente tautologico, che bisogna riguadagnare la fiducia persa.
Per anni, Bertinotti in testa, abbiamo analizzato le nuove contraddizioni, e le nuove forme delle vecchie contraddizioni, prodotte dalla globalizzazione capitalistica. Partendo dalla constatazione della sconfitta storica del movimento operaio del 900, tanto nella sua versione comunista come in quella socialista e socialdemocratica, abbiamo individuato nel nascente movimento contro la globalizzazione il luogo e la stessa possibilità che l'anticapitalismo tornasse ad essere un'opzione politica e non solo un campo di ricerca culturale o un terreno di pura testimonianza. E' per questo, e non per una moda, che abbiamo parlato dei limiti del partito politico novecentesco.
Limiti di dimensione nazionale e limiti nel rapporto gerarchico con i movimenti sociali, locali o globali, intrinseco all'idea della conquista del potere (o, peggio ancora, del governo). E' così che abbiamo innovato, e rotto con precisi punti della tradizione comunista e della sinistra. Basti pensare alla caduta del governo Prodi nel 98, alla nostra internità nel movimento mondiale e italiano, a Genova, alla pratica della disobbedienza civile e sociale, all'idea del baricentro sociale della nostra attività, alla critica del potere di ispirazione zapatista e così via.
Io credo che avevamo incominciato a ricostruire un rapporto di fiducia con la nostra gente. Che misuravamo nelle dinamiche di movimento, nella vittoria di tante lotte all'inizio degli anni 2000, nei segni di crisi delle politiche neoliberiste e nella coscienza, sempre più diffusa, fra le popolazioni del carattere mistificatorio delle magnifiche sorti della globalizzazione. Parlo della sovranità alimentare, della questione ambientale globale, della precarietà e dell'emarginazione come elementi costitutivi del nuovo capitalismo, dell'offensiva conservatrice ideologica di un nuovo oscurantismo autoritario e di altro ancora.
Avevamo, tutti, evitato accuratamente di essere fuorviati dalla misurazione elettorale di questo processo. Altrimenti, essendo passati dal 8,3% al 4,3%, avremmo dovuto dar ragione a Cossutta, e non avendo avuto impennate negli anni successivi che pure sono stati densi di conflitti, bensì un recupero lento e faticoso, avremmo dovuto evitare come la peste di imbarcarci in un'esperienza di governo.
Avevamo, cioè, pensato che si era incominciato un cammino. Per molti versi assolutamente nuovo per un partito politico. Ma non era un nuovo inizio, era l'inveramento della rifondazione comunista. Un cammino i cui tempi non dovevano essere scanditi dalla contingenza politica, elettorale o meno, ma dalla ri/costruzione del movimento anticapitalista mondiale. Un cammino dalla grande vocazione strategica e contraddistinto dalla necessità di sperimentare in mare aperto, contaminandosi con altre culture ed esperienze in seno al movimento.
Con ciò non voglio sorvolare sui limiti della forma partito, tema sul quale Bertinotti si è esercitato e sul quale tornerò, ma rimettere le cose in piedi.
Considero, infatti, una svolta politicista, un vero capovolgimento di linea, il discorso di Bertinotti alla prima assemblea di Sinistra Europea.
Ma come? Eravamo così in buona salute, noi e i movimenti, da tentare la strada impervia del governo e dopo un anno, quando si comincia a constatare una crisi, invece di prendere il toro per le corna, visto che la crisi era chiaramente provocata dalla delusione per le politiche del governo, sulla base di un banale cattivo risultato alle amministrative, si parla di rischio vitale per la sinistra, si abbandona nei fatti il progetto strategico di cui sopra, si propone un nuovo inizio, di andare oltre rifondazione e di fare tutto in fretta e furia?
Per parte mia rivendico ciò che scrissi nel giugno 2007, pubblicato anche qui sul blog.
http://ramonmantovani.wordpress.com/2007/06/
Ma vorrei aggiungere oggi, che le cose sono molto più chiare, che non aver affrontato per tempo il tema della permanenza al governo, a causa della cultura governista degli altri della Sinistra Arcobaleno, ha finito con il ridurre anche il progetto unitario, che da moltiplicatore annunciato di consensi (il 15% come minimo si proclamava!) si è trasformato in riduttore di voti e di consensi sociali.
Siccome penso che un partito sia soprattutto un progetto strategico collettivo, e non una semplice forma di organizzazione autoreferenziale, conseguentemente ritengo che solo in ragione di un profondo cambio di strategia si possa ritenere necessario andare oltre il partito stesso. Ed infatti Bertinotti questo ha proposto e propone anche in campagna elettorale.
Si dirà, contro l'evidenza dei fatti, che si vuole perseguire la stessa strategia, che nell'esercizio del "dire per sé cosa si tiene e cosa si lascia" rifondazione investirà il meglio di se stessa nel nuovo partito e vincerà una battaglia egemonica.
Vediamo cosa vuole tenere e cosa lasciare Bertinotti e soprattutto perché:
Cosa va abbandonato? La cultura organizzativa in cui abbiamo lasciato imprigionare questa innovazione. Il nostro rinnovamento culturale si è prodotto sul terreno delle culture politiche e non sul terreno delle forme di organizzazione della politica. Dobbiamo sperimentare forme di organizzazione che consentano una riconnessione sentimentale con il tuo popolo, sennò non ce la facciamo e l'organizzazione funziona come intercapedine e si ferma lì. Faccio un'autocritica rispetto al periodo della mia direzione di Rifondazione: rivendico il coraggio innovativo del congresso di Venezia, ma, curiosamente, visto che noi veniamo dalle culture critiche ed eretiche del movimento operaio e abbiamo assorbito la lezione del femminismo e della cultura di genere, c'è stato anche un errore politico. Parlo per me: ho pensato che si potesse fare l'innovazione politico-culturale solo pagando il prezzo di non toccare il paradigma organizzativo."
Argomenti interessanti, che però non condivido per niente.
Io non credo che antistalinismo, nonviolenza e l'ambigua formula "immersione nei movimenti" siano il nocciolo fondamentale dell'esperienza di Rifondazione Comunista da investire in un processo unitario. Non perché non siano effettivamente elementi innovativi. Bensì perché non sono dirimenti e possono essere messi al servizio di progetti strategici ben diversi fra loro. Una cosa è, infatti, avere un'analisi della globalizzazione che parla della necessità di mettere in discussione il concetto di potere (figuriamoci di governo) e di conquista del potere, e con esso la violenza intrinseca ai rapporti sociali e politici, proponendo la nonviolenza come forma più efficace e più alta di antagonismo.
Un'altra è predicare la nonviolenza quasi come elemento etico e fondante l'identità politico-culturale, con il quale leggere il potere e il mondo contemporaneo. Dico che è un'altra cosa perché, sebbene non incompatibile con un radicale antagonismo, non lo garantisce affatto. Non è un caso, infatti, che Bertinotti abbia avuto tanti riconoscimenti maliziosi su questo punto da molti che hanno visto nella "svolta nonviolenta" un abbandono dell'estremismo e del massimalismo (leggi dell'antagonismo e della radicalità) di Rifondazione. Non penso che Bertinotti sia colpevole di questo, eppure dovrebbe porsi il problema della lettura prevalente che si fa di questa cosa anche nell'ambito della Sinistra Arcobaleno.
Il concetto di "immersione nei movimenti", parimenti, è compatibile con qualsiasi linea o progetto politico. Chi volete che dica che bisogna starne fuori? Che bisogna ignorarli? Il problema è se sono essi il centro della politica, se sono dotati di progettualità propria, o se sono il classico sommovimento nel quale stare per indirizzarlo, per dirigerlo e possibilmente per conquistarne il consenso. Ho già detto che Bertinotti, su questo, usa una formula ambigua, ma come non vedere che la maggioranza della Sinistra Arcobaleno, compresi oramai diversi di Rifondazione, ripropongono la formula più classicamente novecentesca del rapporto fra politica e sociale, fra politica e movimenti?
Infine, lo stalinismo e l'antistalinismo.
Atteso che sugli "errori ed orrori" siamo d'accordo tutti, almeno spero, voglio dire alcune cose in modo provocatorio.
Chiedere a una platea, congressuale per esempio, di votare su una proposta generica e volutamente ambigua, riservando ad una ristretta cerchia oligarchica impegnata a darsi coltellate dietro le quinte, sulle liste elettorali per esempio, le vere decisioni, ha a che vedere con lo stalinismo o no? O è un male inevitabile della forma partito?
Il leadersimo, anche se è un prodotto di questi tempi e del sistema massmediologico, quando non è sottoposto a critica e non si tenta nemmeno di superarlo nel tempo, ha a che vedere con lo stalinismo o no? O è anch'esso un male prodotto necessariamente dalla forma partito?
Bertinotti avrebbe ragione ad autocriticarsi, avendo pensato di poter fare "l'innovazione solo pagando il prezzo di non toccare il paradigma organizzativo". Ma non è vero che le cose sono andate così. E' vero che il paradigma organizzativo, formalmente, non è stato toccato. Il problema è che è stato svuotato senza che fosse sostituito con uno più democratico o, almeno, migliore e più coerente con il progetto strategico che via via è stato costruito.
A un certo punto Bertinotti ha teorizzato che bisognasse implementare l'informalità nella discussione e nei processi decisionali. Ricorderà che mi sono opposto, senza successo, a questa sua idea. Il risultato è stato un incremento del leaderismo, un clima di conformismo crescente, e la crisi di credibilità e soprattutto di autorevolezza degli organismi preposti, nel paradigma, a prendere decisioni e ad assumersi responsabilità.
Ora, cosa può spingere un segretario di un partito a pensare che si possa cambiare linea, strategia e cultura politica di un partito "solo" senza riformare l'organizzazione? Sarò esagerato, forse, ma l'unica risposta plausibile mi sembra: perché pensa che il partito è irriformabile!
Tutto l'assunto di Bertinotti sul rapporto innovazione politico-culturale e partito è da rovesciare.
La rilevanza dell'innovazione nel campo della libera ricerca è una cosa, ma in politica le analisi, le svolte, e le stesse idee che Bertinotti ha avuto l'indiscutibile merito, anche se non esclusivo, di produrre, fuori del partito organizzato sarebbero rimaste inerti e non avrebbero avuto alcuna rilevanza. Sarebbero rimaste articoli su qualche rivista o forse non sarebbero nemmeno nate.
Sarebbero, cioè, rimaste testimoniali. L'organizzazione non è una "intercapedine", è lo strumento per agire ed anche per decidere. La connessione fra una politica (perfino un leader) e il popolo non è mai impedita o intralciata dall'organizzazione di partito. Casomai è resa tendenzialmente stabile e non esposta ai rovesci che può subire o, peggio, agli errori personali del leader.
Per questo, invece della comoda informalità, sarebbe stato meglio dedicarsi ad un lavoro paziente per mettere mano alle degenerazioni dell'organizzazione, ai personalismi e ai carrierismi, alla sbagliata divisione del lavoro, al carattere monosessuato della stessa organizzazione e così via.
E' profondamente ingeneroso verso decine di migliaia di militanti pensare che non siano stati capaci di riformare la propria casa a causa dell'errore del capo, che non si era posto il problema e che oggi si autocritica.
Io penso che i problemi evidenti, connessi alla crisi ed alla irripetibilità dei modelli dei partiti di massa o di avanguardia del novecento, stiano tutti di fronte a noi. Rimarranno e si aggraveranno se si darà vita ad una forza politica leaderista ed incerta su questioni come il governo, sia che abbia una forma federata o unificata.
Credo che Rifondazione Comunista, con tutti i suoi limiti e difetti, non debba perdere se stessa perché è il luogo, lo spazio politico, migliore per procedere anche ad una profonda riforma dell'organizzazione politica, da mettere a disposizione in qualsiasi processo unitario che ne rispetti l'identità e l'autonomia.
Fuente: Bellaciao.Org/ Prensa Popular Comunistas Miranda
http://prensapopular-comunistasmiranda.blogspot.com/